Caffè Letterario
Buongiorno miei cari lettori e viandanti
sperduti, pronti con il caffè? Perché oggi vi porterò tra le dolci pagine di... Tutta
colpa di New York di Cassandra Rocca
Inizia una nuova settimana, ma non
temete, ho trovato la lettura giusta per iniziare con dolcezza questa nuova
settimana. Immagino che anche voi avete trovato fantastico il bellissimo film
con Julia Roberts e Hugh Grant, Notting Hill.
Beh! allora seguitemi, perché ora
ci spostiamo a New York dove vi
presento la versione femminile di William Thacker, Clover O’Brian,
una comunissima e irruenta giovane
donna, senza peli sulla lingua, con occhi verdi, morbidi capelli rossi e a
differenza del nostro William, non lavora in una libreria di viaggi, ma pur
sempre in un negozio, con la particolare mansione di personal shopper. Caspita!
sapevo dei personal trainer, ma onestamente i “personal shopper” mi mancavano.
Infatti la nostra protagonista, aiuta i suoi clienti nell’ardua impresa di scovare
il regalo perfetto.
La parte di Sara Scott è rappresentata da Cade Harrison,
un attore di Hollywood bello, ricco,
famoso e amato. Ma diversamente da Sara, il nostro Cade non è un suo cliente,
ma allora come si possono incontrare due persone che vivono in mondi
completamente diversi? Come per Sara, la causa principale è il risvolto
negativo del successo, infatti Cade, è appena uscito da una relazione
disastrosa con una collega, e il bisogno di rifugiarsi in un luogo poco
frequentato dalle star, lontano da occhi indiscreti e soprattutto dai paparazzi
è la motivazione che lo spinge a trascorrere le feste a New York, in una casa
presa in prestito da un amico.
Adesso, non mi resta che lasciarvi a questo
assaggio, da degustare insieme al vostro caffè, dove potrete scoprire come
avviene il magico incontro tra i protagonisti di questa romantica e divertente
storia, narrata da
Cassandra Rocca
Ma scopriamo qualcosa di più su...
Cassandra Rocca, una giovane scrittrice di
origini siciliane, che vive a Genova. Nella vita di tutti i giorni lavora come
educatrice infantile, ma dedica il tempo che le resta al suo amore più grande:
i libri. Accanita lettrice e aspirante scrittrice fin dalla tenera età, ha
iniziato a pensare di rendere pubblica la sua passione solo negli ultimi anni. Tutta colpa di
New York è il suo romanzo d’esordio.
Rivolgiamo uno sguardo ai commenti di chi ha letto questo libro?
“Dialoghi
brillanti e spassosissimi che rendono irresistibile la lettura. Puro
godimento.”
Elisabetta
“Dolce
come un’intera scatola di cioccolatini, ma senza calorie”
Benedetta
Beh! direi che gli ingredienti sono
ottimi, per iniziare con dolcezza questa nuova settimana, quindi godetevi la
vostra insostituibile bevanda mattutina, il caffè e la spensierata storia di
Clover & Cade e del loro... fortuito incontro nella “Grande Mela”, la città
dove tutto può diventare possibile.
Le risate
dei bambini risuonavano lungo la via, facendo eco a quelle più contenute degli
adulti e ai tipici rumori delle case in festa. In un piccolo quartiere
residenziale di Staten Island le famiglie erano intente a celebrare il giorno
del Ringraziamento attorno a tavole imbandite, su cui facevano bella mostra di
sé tacchini ripieni, gustando squisite torte di zucca, patate dolci, e chiacchierando
amabilmente con gli ospiti. In strada, i bambini si godevano la fredda giornata
di sole di fine novembre rincorrendosi fra loro, ma erano i piccoli gemelli
Stevenson a ridere più di tutti gli altri, inseguiti da una strana specie di
tacchino umano. - “E così vorreste mangiarmi, eh? Ve la
faccio vedere io, cannibali! Sono stufo di vedere i miei simili stesi sui
vostri tavoli!”. Con voce stridula, infarcita dei buffi versi tipici di un
tacchino, Clover O’Brian continuò a rincorrere i tre monelli di sette anni per
il piccolo spazio erboso di fronte alla chiesa, deliziata dalle loro grida. - “Chi
di voi ha mangiato più tacchino a pranzo?”, chiese,
facendo seguire una raffica di glo glo glo per dare enfasi al personaggio. - “Io, io!”, strillò Sam, quello con due
buchi vuoti al posto degli incisivi superiori. - “Ne ho mangiati ben due
piatti!”. - “Ah, non stento a
crederlo! Con tutto quello spazio lì davanti, è naturale che cada più cibo
nella tua bocca”, scherzò Clover, fingendo di caricarlo a testa bassa. - “Allora
mangerò prima te! Glo glo glo!”. Scattò in avanti facendo urlare di gioia il bambino, poi si
dedicò anche agli altri due. Iniziava ad avere il fiatone, ma le piaceva
sentire il suono di quelle risate infantili. E poi non aveva niente di meglio
da fare: era sempre sola il giorno del Ringraziamento. Anzi, a dirla tutta, era
sola quasi in ogni ricorrenza speciale. Non poteva affermare di avere una
famiglia e i suoi pochi amici passavano le feste con i propri cari, com’era
giusto che fosse. Riceveva spesso i loro inviti, ma preferiva declinare e
trovare passatempi alternativi per trascorrere quelle giornate. Imbucarsi nelle
case altrui non faceva che ricordarle ciò che a lei mancava, e non voleva che
pensieri così tetri le rovinassero un giorno di festa. L’allegria era quasi un
dovere, per Clover. Soprattutto in quel periodo. Adorava il Natale, l’atmosfera
che si respirava a dicembre e in nessun altro mese dell’anno, e si batteva
continuamente perché nessuno rovinasse quei trenta giorni per lei sacri, anche
a costo di festeggiare da sola. Da quando suo padre era morto, ormai dieci anni
prima, Clover si era lentamente abituata alla solitudine. Non che prima ci
fosse un gran clima di festa in casa O’Brian: nessuno nella sua famiglia aveva
una predisposizione al buonumore, né uno spiccato spirito natalizio. Ma lei non
aveva perso quell’esuberanza infantile che la faceva sorridere come un ebete al
pensiero di dozzine di pacchi colorati sotto un albero luminoso. Per questo
cercava in tutti i modi di non farsi avvelenare dal cinismo e dal disincanto
altrui. Sua madre aveva sempre odiato il Natale. Dover organizzare una festa
impeccabile per gli ospiti, andare alla ricerca dei regali per tutti e
sorridere a parenti e amici comportava nervosismo e imprecazioni, dai quali suo
padre si teneva sempre saggiamente alla larga. Ma una volta rimasta vedova le
cose erano ulteriormente peggiorate, e così Nadia O’Brian aveva smesso di
organizzare qualunque festeggiamento, limitandosi ad accettare gli inviti
altrui. Suo fratello Patrick, invece, da quando si era sposato aveva perso ogni
interesse per quel periodo, considerandolo solo una festa per bambini. A dire
il vero erano molti i cambiamenti avvenuti in lui, dopo il matrimonio, e tutti
negativi: si era chiuso in se stesso, pensando unicamente al lavoro e ai figli,
dimenticando il bel rapporto di complicità che li aveva sempre legati. Clover
ripensava a Patrick con nostalgia e rabbia… Ripensava, sì, perché i ricordi
erano tutto ciò che le rimaneva: non essendo particolarmente simpatica alla
cognata, il loro legame si era inesorabilmente allentato e i loro incontri
erano diventati sporadici. In ogni caso, per quanto la cosa potesse
dispiacerle, il distacco dalla sua famiglia le aveva permesso di mettere la
giusta distanza fra il suo bisogno di serenità e allegria e la loro tendenza al
melodramma. La morte della nonna paterna, per di più, aveva dato a Clover la
possibilità di allontanarsi anche fisicamente da quel clima teso. Andarsene dal
Maine e prendere possesso della sua eredità – la piccola villetta nella quale
viveva da ormai tre anni – era stata una benedizione, e gli incontri con la sua
famiglia si erano ridotti quasi a zero. Adesso le feste comandate erano
monopolio di Patrick e sua moglie Sienna: ogni anno, tutta la famiglia O’Brian
si riuniva nella loro casa di campagna e, per almeno un paio di giorni, fingeva
di andare d’amore e d’accordo e di provare interesse per tradizioni natalizie
osservate solo a beneficio dei bambini. A causa della sua scarsa inclinazione a
mentire e della sua incapacità a trattenere verità scomode, Clover non era la
benvenuta… ma poco le importava. Partecipare a quei ricevimenti, i primi anni,
era stato un tormento costellato da discussioni e musi lunghi, che
inevitabilmente sfociavano in feroci mal di testa e tristezza latente. Da
allora era nato un tacito accordo tra lei e suo fratello: Patrick la invitava
alla cena della vigilia e al pranzo di Natale, lei fingeva di avere già altri
impegni e tutto si riduceva all’invio, da parte sua, degli annuali regali per
tutta la famiglia. Soltanto questo la salvava dall’essere depennata
definitivamente dall’albero genealogico: era maledettamente brava a fare regali. -
“Clover, sei troppo lenta! Non
riesci a prenderci!”, sbottò
Mark, il più sveglio dei gemelli Stevenson, strappandola ai suoi pensieri e
riportandola alla realtà. - “Ho
mangiato troppi bambini a pranzo, forse è il caso che vada a riposarmi. Vi
mangerò un’altra volta”. - “All’attaccoooo!”, urlarono tutti insieme, correndo verso di lei. Con una risata,
Clover si voltò di scatto per scappare, ma un ostacolo inaspettato si parò
dinnanzi a lei, una barriera che occupava tutta la sua visuale e che la fece
rimbalzare all’indietro, scaraventandola sull’erba. - “Ma
che cavolo…?”, bofonchiò. “Si è
fatta male?”. A quella voce Clover alzò lo sguardo, mentre una mano dalle
dita lunghe si affacciava nel suo campo visivo. La mano non era che l’elegante
appendice di un braccio, a sua volta parte di un corpo ben proporzionato,
coperto ma non nascosto da una giacca di ottima fattura. - “Porca miseria”, borbottò, rialzandosi senza l’aiuto della mano
tesa. - “Ma lei chi è, Wolverine”
- “No,
quello è Hugh Jackman”.
- “Dalla
consistenza del suo torace si direbbe che anche lei è fatto di adamantio”.
- “Il
colpo è stato così forte? Devo chiamare un’ambulanza?”, chiese l’uomo, con una chiara nota
divertita nella voce. Clover alzò finalmente lo sguardo su di lui e per poco
non cadde un’altra volta. Nonostante il cappello di lana e il bavero della
giacca sollevato, era impossibile non riconoscere quel viso dalla bellezza
sconvolgente. Cade Harrison, il noto attore di Hollywood...
......
Come si concluderà questa romantica
storia iniziata con questo incontro? Scopriamolo continuando a LEGGERE.
Al prossimo Caffè Letterario e...
Buona Lettura
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