Parliamo di...
Matteo Cellini
Matteo Cellini, è un giovane
professore di lettere presso la scuola media, originario di Urbino e cosa più
importante scrittore d’esordio, del libro Cate, io con cui si è
meritato il Premio Campiello Opera
Prima, è stato anche selezionato tra i 12 libri semifinalisti nel Premio
Strega, e anche se non ha superato la semifinale, il suo è un libro di grande
qualità e dal forte impatto, perché con una scrittura semplice, velata dalla
grande autoironia della protagonista, riesce a trattare un tema molto delicato,
quello dell’obesità giovanile, attraverso la vita supereroica di Caterina o
Cate, una diciassettenne in lotta contro se stessa e il mondo, e lei salva tutti
e soprattutto se stessa, con la sua intrepida super ironia tipo:
“Siamo gli eroi della dismisura, perché avere chili di
troppo è questione di quantità, poi più niente.
Per fare me
hanno impiegato più pongo che per fare te. Però siamo uguali.
Potremmo
essere, ad esempio due pugili: io rientrerei nei massimi e tu nei pesi piuma,
ma non ci sarebbe altra differenza.
Al mercato, mi
si vendesse a peso costerei di più: tu meno, ma saremmo entrambi sogliole,
totani o capponi”.
Cate, io, è un romanzo in
prima persona e la voce narrante è la protagonista la giovane e povera
Caterina, che attraversa il periodo più difficile quello dell’adolescenza con
parecchi chili di troppo che la rendono un fenomeno agli occhi dei suoi
coetanei, che naturalmente la isolano e la deridono, ma lei cerca di reagire
alla difficile situazione in cui si trova con una mordace autoironia che
dovrebbe consolare il suo animo ferito e solo sperando in un futuro migliore
dove lei è accettata e la sua famiglia una silhouette. La qualità dell’argomento trattato con
impareggiabile stile, la studiata psicologia di Cate, hanno messo questo libro e
il suo autore in ottima luce di fronte alla critica letteraria, ma cosa ne
pensano i lettori come noi?
Scopriamolo godendoci un po’ di Cate,
io e poi decidiamo se merita un posto tra i nostri libri in lettura.
Mi chiamo Caterina mentre mio fratello attorciglia elastici alle
cose nell’altra camera e mia madre chiama. È freddo come di regolo ogni
mattino, sarebbe da cucirsi il piumone
addosso ma me ne sto così, col pigiama solamente. Scendo dal letto,
e sono ancora Caterina. Sento le cose di là strette tra gli elastici staccarsi,
immagino l’infinità
di nodi sciogliersi e la gioia del lieto fine. In cucina è appena più
caldo, papà già da un pezzo è ai fornelli e il macchia di un odore forte l’aria
come un cane dalmata. Sulla tavola è pieno di cose che non mi appartengono,
molte sono di mio padre. Ha gli abiti da lavoro coi segni dei pennelli e tutto
il resto; Oscar siede già tutto sporco di latte e biscotti intorno alle labbra,
ha un naso rotondo come un bottone da cappotto, rosso come un pulsante per la
distruzione del mondo, e mi viene da spingerlo, e mi viene da dire pulisciti,
non è un trogolo quello, ma ci rinuncio. Mia mamma scende le scale in
vestaglia, impreca contro gli elastici, dice mangiamo senza di lui che non può proprio
lasciare. Mangiamo e siamo noi misura di tutte le cose, mangiamo e sembriamo
noi una famiglia normale; le sedie sembrano solo più strette, le posate un po’
piccole e nient’altro. E io sono ancora Caterina, e le cose sono le cose, o lo rimangono appena più
che fuori di qui, oppure non ci si pensa, ecco tutto. Cogli occhi nella tazza
sento il rumore del latte che scivola nelle gole, il respiro non è affannato perché
è di tutti affannato, e finisse il mondo tra le pareti di questa casa nessuno lo
definirebbe affannato, ma normale. Oscar canticchia sigle di cartoni animati e
mio padre tace, mamma riepiloga le cose del giorno fissando il vuoto come non fosse
veramente vuoto ma pieno di fogli di block notes, io dalla mia posso starmene
tranquilla, godermi la discesa bollente del latte come fossi un termosifone,
contentarmi di essere semplicemente Caterina.
Mi alzo e bacio babbo immobile sulla sedia, come un punto e virgola; ha
come sempre una reazione da punto a capo: preme un bacio maiuscolo su di me,
poi raggiunge Oscar e mamma e si china su di loro; dice “Buona giornata a tutti!” e scompare nel suo quotidiano paragrafo di
lavoro. Io intanto afferro Oscar per una mano e lo trascino su fino in camera. Mentre
mi vesto si raggomitola nel mio letto e mia madre disotto sparecchia. Oscar si
addormenta di nuovo come ogni mattino, oltre la porta Gionata armeggia con dei riflettori molto forti e io incomincio a soffrire piano come se questi
pantaloni e questa felpa mi soffocassero, come fossero una camicia di forza. In
bagno copro le occhiaie e spazzolo i capelli fissandomi allo specchio fino a
non vedere più niente, ritorno in camera, scuoto mio fratello che si sveglia, “i vestiti da mettere sono quelli sulla
sedia, non quelli nel tuo cassetto, ricordati”, poi lo bacio e sparisco con
lo zaino sulle spalle, e sparisco davvero, ogni gradino una lettera del mio
nome, ogni passo un colpo di gomma. Sono irriconoscibile quando saluto mamma
sulla porta, e non perché ho mezza faccia sotto la sciarpa, semplicemente, come
il più triste dei supereroi, la mia identità scompare appena esco di casa,
appena supero la cancellata – e non sono più Caterina. Mi chiamo Cater-pillar
ora, mi chiamo Cate-ciccia. Anche se non c’è nessuno. Cammino e ho il mio costume indosso: un
panneggiato, indolente, fluttuante manto di grasso. Sono una supereroina e
risolvo problemi. Salvo il mondo. Sono la possibilità
ambulante di un paragone che salva; che toglie dalle mani la palma della più
brutta, della più grassa, della più sola. Sono Cate-bomba, un residuo bellico inesploso
dai tempi delle medie. Cammino per Urbania,
ottomila anime appena, attraverso il piazzale del cinema, la scalinata delle
Poste e penso a New York, o Gotham City: una fuga di grattacieli, il buio di un
vicolo lunghissimo e sei lontano, di nuovo alla tua identità; una ragnatela, un
colpo di mantello e sei sopra gli occhi di tutti, tra le nuvole. Ti sottrai al
vestito e sei di nuovo te, mentre io rimango, perduro, in posa costante per
tutte, tutte le fotografie. Io non posso mutarmi d’aspetto, posso solo trovare
rifugio, frapporre qualcosa, un muro, una porta, un cancello, un taglio di
capelli a forma di sipario, un trucco da imbianchino, una dieta portentosa, una
dieta a zona, una dieta di soli frutti, una dieta senza carboidrati. La mia vita è stata sin qui nient’altro che
il tentativo di togliermi questo costume da supereroe. Sul pullman arrivo tra i
primi per non comparire di fronte alla platea, per non percorrere il corridoio
tra i 13 sedili, come una ridicola passerella; mi siedo in seconda fila tra i
primini, rivolta al finestrino. Non ho compiti da copiare, non ho appunti da
ripassare, non ho amiche con cui condividere qualcosa. Mi hanno confinata qui, murata
in me stessa. Avranno pensato che grassa come sono potevo ricavare da me
un’amica o due con cui chiacchierare, trascorrere il tempo; che fossimo più persone in
una. Il rumore della strada e la
controffensiva del sonno, le parentesi quadre dell’iPod rendono quasi
piacevole, dimentico il viaggio fino a Urbino. All’apertura delle porte
cigolanti del pullman i giorni peggiori immagino guardie giurate e il refrain
dead woman walking fuoriuscire dagli altoparlanti. Scendo invece nel silenzio oggi e mi accompagno ad alcune
che sono colleghe, nient’altro. Oggi l’Annoievole Anna è assente, c’è Angela
invece, e Giulia. Fino all’uscita dal pullman non vedo nessuno dei miei, perché
entrano in fondo, perché siedono in fondo, nel presbiterio, dove non ho mai
chiesto spazio. “Ciao, Cate”, dice Giulia mentre Angela mi fa un segno con la testa
mozzata dalle volute di fumo; saliamo insieme perché andiamo nello stesso
posto, qualche volta parliamo della prof di lettere “che ci capisce”, dei
compiti e dell’esame che si avvicina. Spesso taciamo però e per me sarebbe
niente male, ma debbono sentirsi in colpa in qualche modo, pensano forse che la
vita giusta e desiderabile scorra attraverso le loro vite e non attraverso la
mia, così dicono, ad esempio: “Allora, come
va?”, che invece di stabilire un contatto mi spedisce a migliaia di anni luce, annerendo il vuoto che dovrebbe non
esistere tra coetanee e compagne di classe. Io fieramente rispondo un “bene” armato di tutto punto, risentito
quasi: non sono malata e non lo sono stata, non vengo da nessuna convalescenza.
Chissà se qualcuno mai avrà ironizzato, le volte che manco, sulla possibilità
ridicola di incasellare la mia assenza in uno spazio così piccolo, come
bastasse una minuscola a corsiva a cancellare tutta questa ciccia. Se qualcuno,
in quei giorni, avrà mai indicato la mia sedia esclamando: “Oggi riprenderai fiato!” o tutta la classe: “Non vi sembra vuota, oggi?”. Chissà. Per evitare che si parli di
me non manco mai. Ci sono sempre, per tenermi vicini i nemici, per evitare che
la situazione mi sfugga di mano. Per non dover chiamare qualcuno per i compiti.
Cosa che non faccio mai, se non in vista di una verifica: senza domandare
studio le dieci pagine successive, faccio tutti gli esercizi. Faccio terra
bruciata. Ma non manco mai e sono sempre avanti sul programma. E sì: sono la
migliore della classe. Difficile a credersi. Di solito una palla di lardo è
vittima di una catastrofica educazione alimentare, sbagliata in tutti i campi
della vita per l’irresponsabilità di genitori amanti prematuri e sposi giovani
– partiti male e finiti peggio. Invece
no. Nel mio mare di trigliceridi nuotano un sacco di neuroni, e con molto agio
per giunta. Perderei tutte le gare di corsa, ma se si tratta di ragionamenti non sbaglio una
partenza e non manco mai il traguardo. Non manco mai nulla. Sono sempre
presente, sono la prima della classe. ...